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7   giugno

Le politiche di welfare tra teoria e realtà: il caso virtuoso delle politiche per la casa a Vienna – Yuri Kazepov

By C.Stadler/Bwag - Own work, CC BY-SA 4.0
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Ciampi Visiting Scholars

Secondo Yuri Kazepov, sociologo dell’Università di Vienna e visiting professor all’Istituto Ciampi nel febbraio 2024, il quadro socio-economico, istituzionale, politico e anche la burocrazia sono il contesto che contribuisce a determinare l’efficacia delle politiche sociali.

Quando si approvano le riforme di welfare, grandi o piccole che siano, la discussione pubblica avviene soprattutto sul cosa (quali diritti per chi e come finanziarle) e meno sul come queste vadano implementate, da chi vadano gestite o su che effetto avranno negli ambiti in cui verranno applicate. Con decenni di studio sulle politiche sociali in prospettiva comparata, Yuri Kazepov, sociologo all’Università di Vienna e visiting professor nel mese di febbraio all’Istituto Ciampi-SNS di Firenze, insiste invece sulla necessità di studiare le policies nel concreto, nei luoghi e nei contesti in cui queste intervengono perché “quando ti trovi a studiare le politiche nel concreto trovi sempre una distanza tra il modello teorico e le complicazioni della realtà”. Un buon esempio in questo senso, pur non trattandosi direttamente di politiche sociali, riguarda le misure per la transizione ecologica, ossia strumenti immaginati per migliorare la vita di tutti, ma che potrebbero produrre nuove forme di diseguaglianza.

Di questo difficile equilibrio tra effetti sperati e raggiunti delle politiche (sociali e ambientali) e di come studiarli abbiamo parlato con Kazepov usando esempi relativi a Vienna e alle politiche ambientali.

 

Partiamo dall’approccio metodologico: nella sua Ciampi Lecture ha descritto un modello…

Si tratta di un approccio che mi ha aiutato ad analizzare le politiche di welfare e a capire le differenze tra i vari sistemi di welfare, valorizzando i dettagli e come questi contribuiscano – nelle diverse articolazioni – a strutturare le disuguaglianze sociali.

Il modello con cui affronto lo studio delle politiche sociali e dei loro effetti prevede quattro dimensioni analitiche che vorrei illustrare con degli esempi. Partiamo da una constatazione banale dalle conseguenze non banali: le giurisdizioni definiscono uno spazio territoriale all’interno del quale certe leggi hanno si applicano. I confini determinano comportamenti umani e creano delle comunità “redistributive”. Le pensioni o l’indennità di disoccupazione vengono regolate e gestite a livello nazionale. Altri strumenti di welfare possono invece essere regolati o gestiti a livello regionale e/o comunale. Nella situazione ideale queste differenze permettono di adattare le politiche ai contesti locali mettendo in atto politiche redistributive rispetto a condizioni diseguali. Tuttavia le politiche possono non riflettere bisogni diversi, ma rapporti di forza diversi, ruoli diversi di attori diversi con qualità e forza della pubblica amministrazione diverse tra loro, rinforzando, nel peggiore dei casi, forme di diseguaglianza.

Altro elemento importante è il design delle politiche: qual è l’architettura istituzionale di misure diverse? Chi sono gli attori coinvolti e che ruolo hanno? Come si finanziano? L’intreccio tra giurisdizione e design delle politiche determina dei confini, decide chi ha diritto e chi no. Per esempio, se acquisisci diritti solo pagando dei contributi hai un certo tipo di sistema, come in Italia prima della creazione del Sistema Sanitario Nazionale il sistema mutualistico prevedeva il diritto alla Sanità solo a chi versava i contributi, oggi tutti hanno diritto alle cure pubbliche in quanto cittadini e non in quanto dipendenti. Prima i parenti dei dipendenti erano legati a questi per avere diritto alle cure e in caso di separazione poteva capitare che tra il 1970 e il 1978 perdessero quel diritto. Due modi diversi di immaginare una politica (e i rispettivi principi regolatori) cambiano la comunità di riferimento e il modo in cui il cittadino gode di un diritto.

Cruciale è anche l’interazione tra una legge e il contesto socioeconomico con qui questa interagisce. Di solito questo elemento viene sottostimato: il contesto viene considerato un contenitore dove le cose accadono, ma le misure interagiscono con la realtà. Se immagini un piano di riqualificazione per i giovani senza lavoro di un territorio e scegli di formarli come fornai o parrucchieri in un contesto nel quale il mercato del lavoro non ha bisogno di fornai o di parrucchieri, avrai fatto cattivo uso delle risorse pubbliche e creato frustrazione proprio perché non hai considerato le esigenze e caratteristiche del contesto.

Un esempio paradossale che riguarda la giurisdizione è il modo in cui era organizzata un tempo l’assistenza domiciliare per gli anziani a Roma che veniva gestita dai municipi: in pratica due anziani che vivessero in due strade contigue ma al confine tra due municipi usufruivano di un servizio diverso, godevano di diritti diversi.

Un altro esempio di quanto sia rilevante il contesto possiamo farlo considerando il mercato del lavoro in Italia e la sua relazione con la struttura economico-produttiva. In Italia abbiamo un sistema di imprese fatto prevalentemente di piccole e medie (la dimensione media è di 3,9 addetti e il numero di imprese con meno di 9 addetti è oltre il 95%!) il che si traduce in un mercato del lavoro che è tendenzialmente poco in grado di assorbire laureati. Per questo lamentarsi dello scarso numero di laureati in Italia è giusto da un punto di vista della crescita sociale e culturale del paese ma bisogna tenere conto che molte persone difficilmente troveranno un lavoro adeguato alla propria formazione e la sovraqualificazione è un fenomeno molto diffuso.  Naturalmente i laureati possono produrre innovazione, fare impresa, ma in generale il problema dell’Italia è che per competere sui mercati globali ha puntato sul basso costo del lavoro.

Per riassumere tutto questo discorso in una frase, il contesto nel quale si applica una politica è fondamentale e la stessa politica applicata in contesti diversi può produrre effetti opposti. Anche i contesti socio-demografici sono importanti. Il contesto produce dei bisogni, la politica usa degli strumenti e li applica all’interno di determinate giurisdizioni.

Nell’attività di ricerca comparata che conduco sui sistemi di welfare europei da tempo, queste variabili si combinano in maniera molto diversa tra loro, creando una varietà di sistemi di tutela o di rischio ed esclusione molto differenziati. A seconda del tipo di politica e delle rispettive giurisdizioni, certi diritti si acquisiscono con la residenza oppure con una certa quantità di contributi versati o con redditi al di sotto certe soglie, e così via. Piccole regole dall’impatto enorme: a Vienna per esempio per poter accedere alle case popolari servivano cinque anni di residenza, ora ne servono solo due, con un ampliamento importante della platea potenziale.

 

Facciamo qualche altro esempio di come queste variabili si combinino in maniera diversa raggiungendo risultati diversi.

Lo studio del contesto è un elemento che reputo cruciale perché nel disegno e applicazione delle politiche non viene abbastanza considerato. Il contesto, poi, non è solo quello spaziale (di cui ho parlato), ma anche temporale. Una politica adottata prima della crisi degli anni ’70 o dopo implica condizioni economiche, politiche e sociali molto diverse che ne rendono l’adozione più o meno semplice. Il fatto che l’Italia non abbia adottato uno strumento di sostegno del reddito non legato alla contribuzione e volto a contrastare la povertà negli anni di espansione economica è un problema, perché adottarlo oggi – in una fase di contrazione economica – è più difficile. Negli altri paesi europei, una tale politica viene considerata un diritto acquisito.

Un altro buon esempio sono gli strumenti di transizione scuola-lavoro: prendiamo ad esempio Youth Guarantee. Quello strumento in alcune regioni non ha funzionato per nulla, mentre in altre ha funzionato bene. Il punto, anche in questo caso è che il contesto svolge un ruolo fondamentale, non solo per via di mercati del lavoro locali molto diversi tra loro, ma anche per le capacità istituzionali delle pubbliche amministrazioni. Molti anni fa partecipai a un gruppo di valutazione sul Reddito minimo di inserimento, che venne sperimentato in 39 Comuni distribuiti sul territorio nazionale. Il divario nella capacità di tradurre la misura era enorme, sia per la capacità organizzativa sia per la cultura amministrativa locale: in alcuni contesti il clientelismo era un fattore determinante, diversi assistenti sociali mi dissero che molti tra i beneficiari potenziali chiedevano “con chi devo parlare”, “cosa devo fare in cambio” perché erano abituati a un contesto nel quale il beneficiario non aveva diritti esigibili, ma dovesse sempre qualcosa in cambio.

Cosa significa questo? Non che non occorra attivare politiche che ampliano la sfera dei diritti o dei servizi garantiti, ma che quando lo si fa occorre valutare, lo ripeto, il contesto locale, prendere in considerazioni variabili che non sono quelle di un esperimento in laboratorio. Le riforme vanno accompagnate e questa mancanza di accompagnamento è un classico delle politiche italiane: buone leggi, poca attenzione alla fase attuativa. Ma la street level bureaucracy è essenziale, senza una buona capacità di implementare le riforme queste non funzionano anche quando sono ben disegnate.

 

La burocrazia ha un ruolo anche quando si tratta di implementare le leggi che ampliano i diritti, ha cioè anche in questo caso un certo margine di discrezionalità….

I gradi di discrezionalità che si attribuiscono a chi implementa le leggi è importante: in alcuni contesti l’operatore sociale decide se attribuire o meno un diritto, in altri casi il diritto c’è e viene modulato in base alla situazione di bisogno. Un conto è lavorare con la persona che ha diritto a un reddito per costruire un percorso di formazione o stabilire se quel reddito debba prendere la forma di trasporti gratuiti e libri per i figli, altro è se è il diritto (il reddito) a essere lasciato alla discrezione: la mancanza di diritti esigibili (“questo ragazzo è giovane che si trovi un lavoro”) rendono le persone vulnerabili ancora più vulnerabili.

 

Un buon esempio di contesto sono le politiche abitative a Vienna.

Gustav Mahler diceva “quando arriverà la fine del mondo voglio trovarmi a Vienna perché lì tutto avviene con 40 anni di ritardo”. Ora questo ritardo, se parliamo della questione casa, è stata una fortuna perché ha permesso alla città di saltare la fase della vendita del patrimonio pubblico. A Berlino l’aver venduto ha creato enormi problemi, nella capitale tedesca si è passati dal 30% all’8% di case popolari. A Vienna invece ci sono circa 900mila appartamenti e 220mila tra questi sono proprietà del Comune, 190mila sono di edilizia agevolata. Quindi poco meno di metà degli appartamenti di Vienna è in affitto a prezzi che hanno come tetto massimo 6,8 o 7,6 euro al metro quadro, prezzi sostenibili per la stragrande maggioranza dei viennesi.

 

A prescindere dal relativo immobilismo viennese di cui parlava Mahler, è il contesto a essere cruciale

E così, un primo aspetto è relativo alla giurisdizione, Vienna è un Bundesland federale cioè uno stato all’interno della federazione e questo implica poteri maggiori di quelli di un Comune normale. Questo consente ad esempio di regolamentare il mercato degli affitti (anche quelli non popolari) in maniera molto puntuale, riducendo il numero di appartamenti sul libero mercato a un mero 11%, più una quota relativamente bassa di case di proprietà. Due terzi delle case, in sintesi, hanno affitti sociali o comunque controllati e anche i redditi medi possono ottenere case popolari o ad affitto regolamentato. Poi ci sono storia e contesto politico: le case popolari sono una costante della geografia cittadina viennese fin dagli anni ’20 del ‘900 e il governo della città è sempre stato socialdemocratico (o al più in alleanza con i Verdi o -recentemente – con i liberali). Tutti questi aspetti, così come l’accesso diffuso alle case ad affitto controllato anche tra i redditi medi, permette di creare un consenso intorno alle politiche abitative e fa di Vienna un caso molto speciale. Un indicatore di quanto critica sia la situazione abitativa è la percentuale di abitanti di una città che spende più del 40% del proprio reddito per l´abitare. A Londra questa percentuale è oltre al 60%, a Berlino il 50%, mentre a Vienna è il 18%. Inutile sottolineare come questo significhi più risorse disponibili per le persone con un forte impatto redistributivo.

 

Nel modello viennese è entrata anche la questione ambientale

Sì, le case popolari e di edilizia sovvenzionata di nuova costruzione prevedono standard energetici molto alti. La politica interessante riguarda, però, gli edifici operai degli anni ’20 che hanno bisogno di un adeguamento relativo all’efficienza energetica. Il programma del Comune per adeguare ai nuovi standard ambientali è partito qualche anno fa perché la città vorrebbe diventare CO2 neutrale nel 2040. Parlo di questo piano perché a differenza di altri casi i costi della transizione energetica ricadono spesso sull’inquilino cui il proprietario ha cambiato la caldaia o migliorato l’isolamento del tetto. Obiettivo del Comune di Vienna è evitare di far pesare tali costi sugli affittuari.

 

Per approfondire:

Kazepov Y., Verwiebe R., Vienna still a just city?, Routledge, 2022

Territorial inequalities. Welfare systems, local contexts and policy Innovations – La lezione di Kazepov a Firenze (in inglese)