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9   dicembre

Isolazionismo e proiezione internazionale USA: tra dollari, retorica e armamenti. Intervista a Mario del Pero

Lo storico Mario Del Pero sul trumpismo e la frattura generata da guerra in Iraq e crisi finanziaria del 2008.

Il trumpismo e la sua capacità di generare consenso nella società americana vengono da lontano e hanno a che fare anche e molto con il modo in cui gli Stati Uniti stanno e sono stati al mondo, al ruolo che hanno svolto, alla loro capacità di esercitare egemonia. Con Mario Del Pero, storico e massimo esperto di politica estera USA che insegna Storia a Science Po a Parigi, abbiamo ripreso i temi toccati durante una serie di lezioni e seminari tenuti presso l’Istituto Ciampi della Scuola Normale Superiore dove è stato ospite in queste settimane.

“Le amministrazioni che precedono Reagan usano tutte una retorica “limitazionista” come la chiama Robert Osgood, consigliere di Kissinger. Tutte fanno un discorso sui limiti della proiezione internazionale in risposta al fallimento in Vietnam, alle contestazioni interne, al fatto che la paura del comunismo e dell’Urss non sono più mobilitanti e alla crisi del dollaro, che negli anni ’70 si svaluta del 50% contro Yen e Marco. Kissinger parla di politica realista e di delegare responsabilità agli alleati, aprire alla Cina per contener l’Urss. È un discorso che riconosce dei limiti e prevede l’abbandono delle grandi crociate modernizzatrici e democratizzatrici in America Latina e Vietnam.

Carter porta il discorso più in là, condizionato anche dalle crisi petrolifere: il discorso del luglio ’79 in cui chiede l’austerity è un discorso patriottico che però segnala la necessità di accettare limiti, persino nei consumi. Reagan fa il discorso opposto: “Il limite è il cielo”. Nel ’79 si pongono le condizioni per questa svolta, specie dopo la nomina di Paul Volcker alla Federal Reserve. I tassi crescono molto e con essi il dollaro torna ad essere fortissimo perché se i bond USA garantiscono rendimenti simili a quelli di paesi molto più deboli, beh, comprerò quelli americani. E con il dollaro forte le economie che esportano hanno un mercato pronto ad assorbire le loro merci. Poi ci sono Afghanistan e Iran, che rilanciano la Guerra Fredda che aiuta l’elezione di Reagan. Riparte una politica estera aggressiva fondata su tre pilastri che in un saggio ho chiamato “Armi, dollari e parole”. Le armi perché riparte la spesa militare e tecnologica. Pur non tornando mai ai livelli degli anni ’50 si inverte la tendenza del decennio precedente. Il dollaro diventa uno strumento con cui importare beni e capitali. Dentro a una generale liberalizzazione dei frutti di capitale gli USA assorbono prestiti e investimenti diretti in Borsa e importano merci perché hanno liquidità e capitali per consumare di più. Infine cambia il codice discorsivo, con Reagan torna il discorso dell’eccezionalismo americano, un nazionalismo solare e ottimista, non cupo e ruvido di quello trumpiano.

Così gli Stati Uniti tornano a essere la grande potenza con il parallelo declino dell’Unione Sovietica. In questa fase comincia quello che mi piace chiamare “impero dei consumi”: non più quello della produzione, ma del consumo, che diventa un asset egemonico e imperiale. Perché tutti hanno interesse a che sia così: c’è il paradosso per il quale tutti prestano soldi al paese imperiale, a partire da Cina e Giappone, per sussidiare i consumi americani. Questa montagna di liquidità diventa internamente credito facile al consumo. Si tratta di uno dei più grandi fallimenti degli Usa contemporanei: avere così tanta liquidità in una fase di trasformazione e averla usata per consumo e speculazione e non per riqualificare i lavoratori, intervenire laddove le fabbriche chiudevano. Anche le guerre stellari reaganiane sono nutrite dall’idea di ridurre l’interdipendenza: il piano di difesa missilistica viene declinato in termini di rinnovata sovranità e autonomia.

Ognuno di questi pilastri contiene contraddizioni che esploderanno nel 2008: monumentali deficit commerciali, dipendenza dal credito estero, crollo del risparmio individuale a redditi che rimangono stabili. Le famiglie americane si indebitano sempre di più e hanno un asset che è la proprietà immobiliare. La crescita del valore delle case diviene lo strumento che consente alla middle class di rinegoziare continuamente il debito e indebitarsi ancora di più. Quando si sgonfia la bolla immobiliare, il debito rimane.

Le armi: hai questa straordinaria dotazione di potenza ma non ti puoi più permettere di perdere un uomo: in Iraq sono poco più di 4mila, 54mila in meno che in Vietnam, ma comunque è politicamente insostenibile. La dotazione di potenza iper tecnologica, almeno fino all’arrivo dei droni, la puoi spendere poco in guerre asimmetriche. Quanto alla retorica eccezionalista, quando va fuori giri ti aliena una parte del resto del mondo.

L’egemone deve confrontarsi con il consenso interno ed esterno. Il liberalismo della Guerra Fredda questi due consensi li metteva in asse, il linguaggio usato sul piano interno poteva essere speso anche sul piano internazionale, mentre l’iper-nazionalismo di Bush jr. galvanizza la società USA per qualche anno ma allontana il resto del mondo. I sondaggi internazionali segnalano un crollo del sostegno europeo alla leadership americana. Le nuove parole post anni ’70 mobilitano l’opinione pubblica interna a favore di una politica estera attiva e onerosa ma tende ad allontanare il resto del mondo. 

Nel 2008 le contraddizioni esplodono perché c’è il crollo del mercato immobiliare con la crisi dei subprime, il fallimento delle guerre e il rigetto mondiale degli USA. Obama riesce a rimettere un po’ i pezzi assieme, ma dopo il 2008 restano. E si accentua quella relativa al baratto diseguaglianza-consumo: il reddito cresce, la ricchezza anche, ma i consumi no. L’aumento della ricchezza è mal distribuito e i miliardari non hanno una capacità di consumo capace di compensare l’aumento delle disuguaglianze. Il gap tra i consumi di Musk e di una persona normale è molto minore rispetto a quello che c’è in termini di ricchezza. I consumi sono una sorta di ammortizzatore sociale, compensano le disuguaglianze e la stagnazione dei redditi. 

Con la globalizzazione c’è la deindustrializzazione che travolge pezzi del paese e ne fa crescere altri, ma come consumatori ne beneficiamo tutti. Le Nike Air Jordan in dieci anni dimezzano il loro prezzo. Si consuma di più a inflazione costante. Ma la narrazione benevola della globalizzazione viene travolta dalla crisi del 2008. Vengono travolti anche il cosmopolitismo, l’idea dell’apertura, dell’integrazione, della mobilità. Credo che Trump sia il prodotto anche di quello. 

La difficile complementarietà tra consenso interno ed esterno la rivediamo con Obama: più è popolare e cosmopolita nel mondo, meno lo è negli Stati Uniti. L’accusa che Sarah Palin gli rivolgeva era quella di non credere all’eccezionalismo americano, che è un modo indiretto di dire “non sei un patriota”. In forme meno marcate rispetto a Bush (in forma inversa, popolare la sua risposta al 9/11 impopolare all’estero).”

Sebbene si tratti di un processo che conosce tante tappe, dalla rivolta contro i diritti civili del Sud, in segmenti importanti della società il presidente nero è vissuto come una sottolineatura di questa percezione di decadimento, di addio all’America (bianca) e faro sulla collina.

La reazione a Obama è il Tea Party che è l’incubatore di cose che vediamo oggi. La retorica del Tea Party prende di mira gli “undeserving” quelli che non meritano e non lavorano (che è un modo di indicare le minoranze, ndr), contrappone l’America che lavora alle élite, discorso presto declinato in opposizioni alle opposizioni. Il leader del Senato McConnell disse di Obama “faremo in modo che sia presidente per un solo mandato”. Cominciò quasi subito la teoria complottista sul certificato di nascita mancante – che segna tra l’altro il ritorno di Trump sulla scena pubblica e politica, dopo che negli anni ’80 aveva criticato il welfare o comprato una pagina per accusare i 5 di Central Park (giovani neri accusati di un omicidio, liberati molti anni dopo, in un procedimento chiaramente guidato dal pregiudizio razzista, ndr).

In quegli anni muore una narrazione benigna della globalizzazione per la quale tutti vincono e sotto i riflettori arriva l’idea che gli Stati Uniti hanno perso sovranità e quindi libertà. L’interdipendenza è una forma di dipendenza da altri, in questo caso da uno straniero come la Cina che preoccupa e che può venire usato per generare paura. Il trumpismo è molte cose, ma è anche la paura di dipendere da altri: i discorsi sul riportare le supply chain in casa vengono declinate parlando di sovranità, ma anche di minaccia.

Dopo il 2008 questa paura dell’interdipendenza è stata cavalcata con spregiudicatezza e abilità dentro a un discorso apocalittico al limite del grottesco. Se guardiamo ai fondamentali, nell’era dell’interdipendenza gli USA non hanno perso, hanno anche molto guadagnato: per ogni città dell’Ohio o del Michigan che perde peso ce n’è una a Sud o nel West che ne guadagna. Eppure è prevalsa questa narrazione per cui gli USA sono tra gli sconfitti della globalizzazione – venitelo a dire ai distretti industriali italiani tanto glorificati nei ’90 dove hanno chiuso imprese e aperto sale Bingo. Questa narrazione si conferma negli anni di Obama, quando i democratici perdono a livello locale e alcune faglie si accentuano e rileggendole oggi possiamo dire che Ferguson o la morte del giovane Trayvon Martin incubano quella reazione viscerale. 

Ripartiamo dalle categorie che ho usato. Le armi: Obama ha le sue responsabilità con l’uso dei droni. Questi contengono i danni, ma non fanno regime change e l’opinione pubblica diventano anti interventisti, lo abbiamo visto in questi anni – ad esempio con l’opinione sull’Ucraina. La straordinaria primazia militare non è più strumento per fare politiche ambiziose. Il discorso sull’eccezionalità: in modi diversi sia Obama che Trump fanno un discorso anti eccezionalismo. Trump in una importante intervista con un media straniero dice “credo all’eccezionalismo americano come crede lei a quello del suo paese”. Trump non rivendica missioni speciali per gli USA, il suo è un nazionalismo che dice “ognuno ha il suo interesse nazionale da perseguire con tutti gli strumenti” – da qui l’ammirazione per Putin o Xi Jinping. Biden ha provato a riaccendere l’idea della missione delle democrazie citando Roosevelt, ma è una retorica che non ha funzionato in termini di consenso. Se non funzionano armi e parole dovrebbero rimanere i consumi. Ma dopo il 2008 e con le nuove regole per le banche approvate con Obama (la legge Dodd-Frank del 2010) c’è un primo ridimensionamento, poi con l’inflazione post 2020, la possibilità di consumare crolla. Il malumore lo abbiamo visto in questo ciclo elettorale. Il risultato del 2008 e delle guerre di Bush sono la fortuna di una proposta politica che promette disimpegno, meno regole e soprattutto la fine dell’interdipendenza. Il che non si traduce in risultati: nonostante le tariffe il deficit commerciale USA non è sceso e, ad esempio, negli anni di Trump il deficit con il Vietnam è triplicato. Teniamo conto poi che le interdipendenze di cui si diceva all’inizio hanno consentito quella capacità di consumi senza spirali inflattive e congelando i salari.

Il conservatore Max Booth, cantore del nuovo imperialismo neocon, ha appena pubblicato una biografia di Reagan, che è molto critica e individua delle matrici del trumpismo nella svolta reaganiana. Si possono costruire molte genealogie dell’evoluzione del partito repubblicano e di determinate reazioni della società USA, ma per me il 2008 resta un passaggio cruciale. La crisi di quegli anni delegittima una narrazione benevola della globalizzazione, porta la contestazione dell’idea di cosmopolitismo, di apertura, scambio e alimenta paure comprensibili e brutti istinti che queste paure generano. 

C’è un nuovo discorso parzialmente egemonico nell’Occidente bianco fa leva sulle paure e la richiesta di protezione, sulla delegittimazione di élite (politiche, intellettuali, scientifiche) e istituzioni. Si tratta di un discorso che attraversa tutte le società dove il ceto medio è stato colpito dai processi di integrazione globale. Come racconta Milanovic, la globalizzazione ha creato una middle class globale e dei super ricchi ma ha colpito le società industriali più avanzate. Ci sono matrici e paure comuni e fenomeni di immigrazione diversi con elementi di comunanza – non a caso Trump usa gli haitiani. Quindi questi discorso trumpiano e non solo fa egemonia. Se poi viene dal pulpito dell’inquilino della Casa Bianca, qualsiasi cosa viene legittimata. Ne consegue una richiesta di tutela, protezione, isolamento e chiusura che produce frammentazione. All’integrazione di mezzo secolo che ha creato una infrastruttura profondissima – centinaia di migliaia di studenti cinesi negli USA, container che viaggiano e così via. È egemonico questo discorso? La risposta non può che essere impressionistica, ma temo di sì. Siamo lì a guardare le origini sociali, storiche, economiche di Trump e di contenuti e toni. Dopodiché oggi c’è un pezzo di società occidentale che vota a destra non nonostante Trump o Salvini ma per loro. L’umiliazione del più debole, la violenza verbale sistematica, evidentemente catturano l’immaginario. Non so se sia egemonia, ma è presa sull’immaginario. Le istituzioni e la politica saranno delegittimate quanto vuoi ma continuano ad avere una forza pedagogica rilevante. Se il presidente degli Stati Uniti usa certi toni, perché mai non dovrei farlo io al bar?

Una versione ridotta dell’intervista è stata pubblicata da il Manifesto